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Il parallelismo lo dobbiamo a Vittorio Sgarbi, che ha curato nel 2012 la mostra personale di Mimmo Centonze a Palazzo delle Esposizioni a Roma, dopo che l’ar- tista ha vinto il prestigioso “Premio Fondazio- ne Roma”: “Centonze nel suo percorso ha fatto qualcosa di molto simile a Dante: un percorso attraverso l’Inferno per arrivare al Paradiso” e se “Monet aveva fatto le ninfeee. Passati i tempi Centonze fa i capannoni dei ri uti. Cambiano i soggetti, ma rimane la stessa energia vitale della pittura. Quasi una serie diabolica delle ninfee di Monet. Monet aveva immaginato una dimensio- ne celeste e la sua è una dimensione infernale. In questo inferno però si immagina una dimen- sione ascetica come quella che indicano grandi poeti mistici come Juan De la Cruz, e cioè dal buio, dalla stanza più buia e più nera, gli occhi si esercitano per vedere quella luce che diventerà poi il richiamo alla luce divina”1.
L’opera “Prigione” è stata selezionata per il Mu- seo della Follia nella cornice magica dei Sassi di Matera.
Sempre il grande critico d’arte, cita l’esperien- za mistica di San Giovanni della Croce che nella prigione della stanza buia della limitata coscien- za dell’uomo, vive la notte oscura dell’anima: e al fondo dell’anima incontra la luce.
Così nell’abbandono della solitudine di una stanza dove si trovano macerie accumulate, dal- la quale non si può uscire, giunge una misterio- sa e inattesa luce che sconvolge e crea sorpresa, tripudio, quel desiderio di “far musica e danza- re” che ci solleva dalla tristezza e ci fa assumere nuovi punti di vista.
L’irruzione della luce scompone il circolo vizioso e l’anima fugge oltre le sbarre, bruciando in una fusione mistica.
Una mistica che non ha nulla del devozionale, ma che sta alla base dell’entusiasmo per la vita che trionfa sulla morte.
Le carceri d’invenzione, sono i capolavori di Pi- ranesi che per Marguerite Yourcenar rappresen- tano la “negazione del tempo, lo sfalsamento dello spazio, la levitazione suggerita, l’ebbrezza dell’impossibile raggiunto o superato”. Visione d’incubo. Nella “Prigione” di Centonze c’è in- vece un fuoco di luce accecante, come fosse un Roveto ardente. Se l’incisore settecentesco sug- gerisce angosce di un eterno ritorno della soffe- renza, dicotomia tra i perfetti calcoli e le visioni prospettiche da capogiro, tema che verrà ripreso da Escher, qui invece la dirompenza della luce fa risplendere il clima di abbandono che c’è dentro. Lo spettatore vede ferraglie abbandonate nella prigione che illuminate da una sorta di teofania prendono immediatamente senso.
Il male nel mondo, la sensazione claustrofobica viene consumata da questa sovrabbondanza che può illuminare, ma può anche far ardere.
Al di là delle sbarre, un tramonto che è un’au- rora.
Francesco Corsi
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