MIMMO CENTONZE LO SPAZIO E IL NULLA

MIMMO CENTONZE LO SPAZIO E IL NULLA

VITTORIO SGARBI

STORICO DELL'ARTE

Una discesa agli Inferi; la voragine dello spazio. Pochi pittori del nostro tempo hanno, più di Mimmo Centonze, il senso della vastità dello spazio. Le sue grandi tele ci disorientano e ci attraggono come la luce sul fondo di una

caverna. Dobbiamo avanzare. Dobbiamo arrivare all’origine della luce. Centonze è partito da una ammirazione illimitata per Lucian Freud, ne ha ripetuto i soggetti, ne ha riprodotto gli ambienti e le atmosfere, ne ha avvertito la lacerazione; ma poi è intervenuta una insoddisfazione, per difetto di trascendenza. Freud ha un ingombro di naturalismo che opprime le sue immagini, le stringe a una dimensione quotidiana, anche se universale, dolente, dominata da una pietas crudele. Ma in Freud non c’e’ speranza, non c’è salvezza. I suoi personaggi sono condannati, vivono il loro inferno quotidiano. Centonze, ammirando il pittore, non può accettarne la visione tragica, amara. E, nella sua ricerca vorace, brucia; e, come le anime del Purgatorio, espia una colpa nella certezza della Grazia. È raro che un pittore sia religioso: ma Centonze non può correre il rischio di essere devozionale, di dipingere la gloria di Dio in una dichiarazione di fede che la pittura non consente. Deve cercare un’altra strada. Per questo si applica a dipingere il vuoto. È lo spazio dei mistici, in una equivalenza pittorica delle Coplas al divino di Juan de la Cruz: “Più salivo in alto,/ e più il mio sguardo si offuscava,/ e la più aspra conquista/ fu un’opera di buio;/ ma nella furia amorosa/ ciecamente m’avventai/ così in alto, così in alto/ che raggiunsi la preda” (“Cuando más alto subía,/ deslumbróseme la vista,/ y la más fuerte conquista/ en escuro se hacía;/ mas por ser de amor el lance/ di un ciego y oscuro salto,/ y fuí tan alto, tan alto,/ que le di a la caza alcance”).

È l’esperienza del mistico. È la conquista della luce. Ma richiede di attraversare il buio, la notte oscura: “O notte che guidasti,/ o notte grata più dell’aba chiara;/ o notte che legasti/ amato con amata,/ amata nell’amato trasformata!”. (“¡Oh noche, que guiaste!,/ ¡oh noche, amable más que el alborada!;/ ¡oh noche, que juntaste/ amado con amada,/ amada en el amado transformada!”).

Per raggiungere questo obiettivo amoroso, Centonze concepisce grandi spazi luminosi su grandi tele. E, per arrivare alla luce, attraversa macerie, cumuli di rifiuti, combustioni. La sua ricerca si accontenta di un particolare in cui si nasconde Dio. Ancora Juan de la Cruz: “Per tutta la bellezza io mai mi perderò,/ ma per un non so che/ che si trova per caso” (“Por toda la hermosura nunca yo me perderé,/ sino por un no sé qué/ que se alquanza por ventura”).

In questa consapevolezza le visioni, certo mistiche, di realtà degradate, di magazzini desolati, delimitano i confini di un inferno quotidiano, oltre il quale c’è la luce di Dio. Nessun percorso razionale è sufficiente, nessuna certezza empirica. Ecco Juan de la Cruz: “Entrai dove non sapevo,/ e rimasi non sapendo,/ ogni scienza trascendendo./ Non sapevo dove entravo,/ ma quando lì mi trovai,/ non sapendo dove stavo,/ grandi cose io afferrai./ Non dirò ciò che provai,/ ché rimasi non sapendo, ogni scienza trascendendo” (Entréme donde no supe,/ y quedéme no sabiendo,/ toda ciencia trascendiendo./ Yo no supe dónde entraba,/ pero, cuando allì me vi,/ sin saber dónde me estaba,/ grandes cosas entendí;/ no dirè lo que sentí,/ que me quedé no sabiendo,/ toda ciencia trascendiendo”).

La pittura di Centonze esprime visioni, ogni scienza trascendendo. E, nella ripetitività, moltiplica le occasioni dell’esperienza mistica, come per confermarla, in perfetta corrispondenza con la ripetitività della preghiera. Ogni “stanza” è come il grano di un rosario, in una successione ossessiva che determina non la suggestione ma la certezza di Dio. Dio è oltre ogni preghiera, è ciò che è al di là della materia e dello spazio. È pura luce, dopo l’esperienza del buio. La presenza fisica dell’uomo, lusingato e accarezzato, anche nella brutalità, nella pittura di Freud, non è più necessaria, anzi è di ingombro alla intuizione luminosa di Centonze. L’uomo è alle spalle, già visto, già dato. Ora bisogna conquistare la preda divina, immateriale, che non si dà senza rischio di perdere la vista. O, almeno, di deslumbrosarla, ovvero di offuscarla. Lo sguardo di Centonze brucia, si misura con il fuoco, ma la sua anima sa che andrà oltre. Perché la più forte conquista è opera del buio.